RSS

Insieme dei numeri naturali

02 Nov

°°°°°

“La matematica non conosce razze o confini geografici; per la matematica, il mondo culturale è una singola nazione.”

DAVID HILBERT

°°°°°

Insieme dei numeri naturali

In matematica i numeri naturali sono quei numeri usati per contare e ordinare. Nel linguaggio comune i “numeri cardinali” sono quelli usati per contare e i “numeri ordinali” sono quelli usati per ordinare.

I numeri naturali corrispondono all’insieme {01234, …}. Essi vengono fatti corrispondere biunivocamente all’insieme dei numeri interi non negativi {0+1+2+3+4, …}.

Talvolta vengono usati anche per indicare l’insieme dei numeri interi positivi {1234, …}.

Cenni storici

I numeri naturali sono i numeri più “intuitivi” che esistono.

L’operazione di distinguere tra nessuno, uno e molti risale all’uomo primitivo.

Ma la comprensione che, ad esempio, una pecora e un albero hanno in comune il fatto di essere “uno”, cioè la nozione astratta di numero, fu un processo graduale (probabilmente non legato a una singola cultura o popolazione) che da vari studi viene fatto risalire circa al 30.000 a.C.

Col tempo furono introdotti diversi simboli e parole per indicare i numeri naturali e in diversi casi anche alcuni tipi di frazioni. Esistono simboli risalenti agli antichi Egizi che indicano frazioni unitarie, cioè con numeratore uguale a uno.

Se ne possono trovare ad esempio nel papiro di Rhind risalente circa al 2000 a.C. Tuttavia il numero zero dovette aspettare più tempo per venire considerato un numero al pari degli altri.

Alcuni numeri naturali
Alcuni numeri naturali

Le origini dell’idea di numero naturale astratto vengono fatte risalire ai Babilonesi nel 2000 a.C., come testimoniato dalla tavoletta Plimpton 322, “sussidiario di matematica” per gli studenti dell’epoca, che contiene problemi matematici che a un’attenta analisi sembrano essere qualcosa di più di semplici esercizi con fini utilitaristici.

Il superamento dei numeri naturali in favore dei numeri razionali positivi è attribuito ai pitagorici che sembra furono i primi a considerare la frazione non più come entità unica ma come rapporto tra numeri naturali.

Importanti risultati riguardanti i numeri naturali sono contenuti negli Elementi di Euclide, successivamente Diofanto di Alessandria si pose il problema della ricerca di soluzioni intere positive di equazioni date.

L’introduzione dei numeri interi relativi, in particolare dei numeri negativi dovette aspettare ulteriormente. Risultati e spunti fondamentali sono dovuti a Pierre de Fermat.

Lo studio dei numeri interi, noto oggi come teoria dei numeri, viene ripreso nel XIX secolo da matematici del livello di Carl Friedrich Gauss e Carl Jacobi e da allora viene considerato un capitolo primario della matematica (vedi anche: Ultimo teorema di Fermat).

Notazioni

In matematica si usa il simbolo  (o N) per indicare l’insieme dei numeri naturali.

Nella maggior parte della letteratura matematica contemporanea, nelle voci qui presenti e nello standard ISO 31-11 sui simboli matematici, si assume che l’insieme dei numeri naturali contenga anche lo zero; per evitare ogni ambiguità è spesso usata la dizione interi non negativi. Per mettere in evidenza che l’insieme non contiene lo  si usa la scrittura , quindi

Per indicare l’insieme dei naturali senza lo zero si possono usare anche le scritture N*N+N+, ℕ+, ℕ+. Talvolta con la notazione  si indica invece l’insieme dei naturali con lo zero incluso.

Nella teoria degli insiemi, l’insieme dei numeri naturali in quanto insieme bene ordinato viene denotato con , e rappresenta il più piccolo numero ordinale infinito. Quando è usata questa notazione, lo zero è incluso.

Definizioni formali

Nonostante la sua intuitività, quello di numero naturale non è, in matematica, un concetto primitivo: è infatti possibile darne una definizione basandosi unicamente sulla teoria degli insiemi.

La definizione è utile perché permette anche di estendere il concetto di numero a oggetti più generali: i numeri transfiniti.

Storicamente, la precisa definizione matematica dei numeri naturali ha incontrato alcune difficoltà. Gli assiomi di Peano definiscono le condizioni che ogni definizione matematica precisa deve soddisfare.

Alcune costruzioni mostrano che dall’interno di una teoria degli insiemi è possibile costruire un modello degli assiomi di Peano.

Assiomi di Peano

  • Esiste un numero naturale, 0.
  • Ogni numero naturale a ha un numero naturale successore, denotato come S(a).
  • Non esiste un numero naturale il cui successore è 0.
  • Numeri naturali distinti hanno successori pure distinti: se a ≠ b, allora S(a) ≠ S(b).
  • Se una proprietà P è posseduta dallo 0 ed è posseduta anche dal successore di ogni numero naturale che possiede la proprietà P, allora la proprietà P è posseduta da tutti i numeri naturali (questo postulato è noto anche come principio di induzione).

Bisogna notare che lo “0”, nella definizione sopra descritta, non deve necessariamente corrispondere con quello che si considera normalmente il numero zero. “0” significa semplicemente un oggetto che, quando combinato con una funzione successiva appropriata, soddisfa gli assiomi di Peano.

Ci sono molti sistemi che soddisfano questi assiomi, inclusi i numeri naturali (sia che partano da zero o da uno).

Costruzione basata sulla teoria degli insiemi

Un numero naturale si può definire come una classe di insiemi aventi uguale cardinalità finita. In sostanza, si parte dalla proprietà (intuitiva) che tra due insiemi qualsiasi aventi lo stesso numero di elementi si può stabilire una corrispondenza biunivoca e la si riformula come definizione: tutti gli insiemi tra i quali si può stabilire una corrispondenza biunivoca vengono accomunati in una classe, che è come assegnare loro un'”etichetta”, a questa etichetta viene dato il nome di numero naturale.

La classe corrispondente all’insieme vuoto viene indicata con 0.

La costruzione standard

La seguente è una costruzione standard nella teoria degli insiemi per definire i numeri naturali:

Poniamo 0 = { }, l’insieme vuoto (∅)
e definiamo S(a) = a U {a} per ogni a.
L’insieme dei numeri naturali è allora definito come l’intersezione di tutti gli insiemi contenenti 0 che sono chiusi rispetto alla funzione successione S. L’esistenza di un insieme siffatto è stabilita dall’assioma dell’infinito. Se tale insieme esiste soddisfa gli assiomi di Peano.
Ogni numero naturale è allora uguale all’insieme dei numeri naturali minori di esso, per esempio:
  • 0 = { }
  • 1 = {0} = (( ))
  • 2 = {0,1} = {0, {0)) = (( }, (( ))}
  • 3 = {0,1,2} = {0, {0}, {0, {0))} = (( }, (( )), (( }, (( ))))
e così via.
Quando ci si riferisce a un numero naturale come insieme, e più propriamente come cardinalità di un insieme, questo è il senso.
Con questa definizione, ci sono esattamente n elementi nell’insieme n e n ≤ m sse n è un sottoinsieme di m, e vale n < m se e solo se n è un elemento di m.
Inoltre, con questa definizione, coincidono le differenti possibili interpretazioni delle notazioni come Rn (n-tuple e mappe di n in R).

Altre costruzioni

Nonostante la costruzione standard sia utile, non è l’unica costruzione possibile. Per esempio:

definiamo 0 = { }
S(a) = {a},
quindi:

  • 0 = { }
  • 1 = {0} = (( ))
  • 2 = {1} = (({ ))}, …

Oppure si può definire 0 = (( )) e S(a) = a U {a}

producendo

  • 0 = (( ))
  • 1 = (( }, 0} = (( }, (( ))}
  • 2 = (( }, 0, 1}, ecc.

Discutibilmente la vecchia definizione basata sulla teoria degli insiemi è comunemente attribuita a Frege e Russell sotto la quale ogni numero naturale n è definito come l’insieme di tutti gli insiemi con n elementi.

Questo può sembrare circolare, ma può essere esposto in modo rigoroso. Definendo 0 come  (l’insieme di ogni insieme con 0 elementi) e definendo  (per ogni insieme A) come . Allora 0 sarà l’insieme di tutti gli insiemi con 0 elementi,  sarà l’insieme di tutti gli insiemi con 1 elemento,  sarà l’insieme di tutti gli insiemi con 2 elementi, e così via.

L’insieme di tutti i numeri naturali può essere definito come l’intersezione di tutti gli insiemi contenenti 0 come un elemento e chiuso sotto .

Le classi di equivalenza degli insiemi infiniti non corrispondono a nessun numero naturale; possono tuttavia essere identificate con diversi ordini di infinito; su tali entità è possibile estendere le usuali operazioni di addizione e moltiplicazione ma queste non conservano le proprietà algebriche che hanno sui numeri naturali.

Lo studio di oggetti corrispondenti a insiemi di cardinalità infinita e delle loro proprietà algebriche è oggetto della teoria dei cardinali transfiniti.

Operazioni

L’operazione di addizione viene definita nel modo seguente:
date due classi di insiemi (quindi due numeri) a e b, se A e B sono insiemi disgiunti appartenenti alle classi a e b rispettivamente, la somma a + b è la classe di equivalenza dell’insieme A U B.
È facile vedere che la definizione è ben posta, vale a dire che, presi due diversi insiemi disgiunti A’ e B’ in a e b, A’ U B’ sta nella stessa classe di equivalenza di A U B, cioè tra A’ U B’ e A U B è possibile stabilire una corrispondenza biunivoca.
Equivalentemente si può definire la somma in N ricorsivamente ponendo a + 0 = a e a + S(b) = S(a + b) per ogni ab.Se si definisce S(0) := 1, allora S(b) = S(b + 0) = b + S(0) = b + 1; cioè il successore di b è semplicemente b + 1.(N, +) è un monoide commutativo con l’elemento neutro 0, il cosiddetto monoide libero con un generatore.
Analogamente, una volta definita l’addizione, si può definire la moltiplicazione × mediante a × 0 = 0 e a × S(b) = (a × b) + a.Questo fa sì che (N, ×) sia un monoide commutativo con l’elemento identità 1; un insieme generatore per questo monoide è l’insieme dei numeri primi.
Addizione e moltiplicazione sono compatibili, ovvero sono distributivi:a × (b + c) = (a × b) + (a × c). Queste proprietà dell’addizione e della moltiplicazione rendono i numeri naturali un esempio di semianello unitario commutativo.
I semianelli sono una generalizzazione algebrica dei numeri naturali dove la moltiplicazione non è necessariamente commutativa.
Se si interpretano i numeri naturali senza lo zero e si incomincia dall’1, le definizioni di + e × sono le stesse, a parte a + 1 = S(a) e a × 1 = a.
Spesso si scrive ab per indicare il prodotto a × b e l’ordine delle operazioni.Inoltre, si può definire una relazione di ordine totale sui numeri naturali scrivendo a ≤ b sse esiste un altro numero naturale c con a + c = b.
Quest’ordine è compatibile con le operazioni aritmetiche nel seguente senso:se ab e c sono numeri naturali e a ≤ b, allora a + c ≤ b + c e ac ≤ bc.
Un’importante proprietà dei numeri naturali è che essi sono ben ordinati: ogni insieme non vuoto di numeri naturali ha un ultimo elemento.
Mentre in generale non è possibile dividere un numero naturale con un altro e ottenere un numero naturale come risultato, la procedura di divisione con resto è possibile: per ogni coppia di numeri naturali a e b con b ≠ 0 si possono trovare due numeri naturali q e r tali che

a = bq + r e r < b
Il numero q è chiamato il quoziente e r è chiamato il resto della divisione di a con b.
I numeri q e r sono unicamente determinati da a e b.

Teorie

L’insieme dei numeri naturali si può caratterizzare univocamente (a meno di isomorfismi) mediante gli assiomi di Peano (nella logica del secondo ordine).
Le proprietà dei numeri naturali relativi alla divisibilità, la distribuzione dei numeri primi e a problemi collegati a questi sono studiate in quella che viene chiamata teoria dei numeri.
I problemi riguardanti sequenze numeriche finite, altre configurazioni numeriche e problemi di enumerazione, quali la teoria di Ramsey, sono studiati nell’ambito della teoria combinatoria.

Generalizzazioni

Due importanti generalizzazioni dei numeri naturali sono:

numeri ordinali per descrivere la posizione di un elemento in una successione ordinata

  • Un numero ordinale è genericamente un’entità che si colloca naturalmente in un insieme omogeneo munito di una relazione d’ordine ampiamente riconosciuta come canonica; gli ordinali vengono usati per questa loro caratteristica per associarli biunivocamente ad altre entità per formare un elenco ordinato, cioè un insieme discreto totalmente ordinato .
  • Tipicamente si usano come ordinali i numeri interni positivi 1, 2, 3, ecc.

i numeri cardinali per specificare la grandezza di un insieme.

  • In matematica, i numeri cardinali sono una generalizzazione dei numeri naturali e sono utilizzati per indicare la grandezza di un insieme. Mentre per gli insiemi finiti la grandezza è indicata da un numero naturale, e cioè il numero di elementi, i numeri cardinali (la cardinalità) classificano oltre a questi anche diversi tipi di infinito.
  • Da un lato è possibile che un sottoinsieme proprio di un insieme infinito abbia la stessa cardinalità dell’insieme che lo contiene, d’altra parte non è detto che tutti gli insiemi infiniti abbiano la stessa grandezza.
  • Esiste una caratterizzazione formale di come alcuni insiemi infiniti siano più piccoli di altri insiemi infiniti. Il concetto di cardinalità è utilizzato in molte branche della matematica, ed è anche studiato nella teoria degli insiemi, particolarmente per descrivere le proprietà dei grandi cardinali.

 

 

 

 

…Segue …

Diofanto di Alessandria

Diofanto di Alessandria (in greco: Διόφαντος ὁ Ἀλεξανδρεύς; … – …) è stato un matematico greco antico, noto come il padre dell’algebra.

Della sua vita si sa ben poco. Vissuto ad Alessandria d’Egitto nel periodo tra il III e il IV secolo d.C., alcuni ritengono che sia stato l’ultimo dei grandi matematici ellenistici.

Diofanto scrisse un trattato sui numeri poligonali e sulle frazioni, ma la sua opera principale sono gli Arithmetica, trattato in tredici volumi dei quali soltanto sei sono giunti fino a noi[1]. La sua fama è principalmente legata a due argomenti: le equazioni indeterminate e il simbolismo matematico.

Premessa sulle equazioni

Un sistema di  equazioni di primo grado in  incognite o ha un’unica soluzione o non ha nessuna soluzione o ne ha infinite. Ad esempio, il sistema di due equazioni:

ammette l’unica soluzione , mentre il sistema

non ammette soluzioni (come si vede immediatamente, la seconda equazione è incompatibile con la prima), infine il sistema

ne ammette infinite (infatti, la seconda equazione non aggiunge nulla alla prima in termini di soluzioni). In quest’ultimo caso, il sistema e il problema associato si dicono indeterminati. Se però si aggiungono alcune opportune condizioni, il problema può cessare di essere indeterminato e può ammettere un numero finito di soluzioni. Ad esempio, se al sistema indeterminato precedente si aggiungono le condizioni che delle infinite soluzioni possibili interessano soltanto quelle rappresentate da numeri interi positivi e che  sia maggiore di  si hanno soltanto le tre soluzioni  .

Equazioni diofantee

Equazioni (non necessariamente di primo grado) per le quali si cerchino come soluzioni soltanto numeri interi prendono il nome di diofantee, in quanto fu proprio Diofanto a dedicarsi con particolare impegno allo studio di tali equazioni, in particolare di quelle indeterminate (in realtà Diofanto non cercava soluzioni intere bensì razionali).

Le equazioni diofantee, in molti casi, ammettono un numero finito di soluzioni. Una generica equazione diofantea lineare è del tipo:

.

Si dimostra che l’equazione ammette soluzioni intere se e solo se  è divisibile per il massimo comun divisore di  e  Ad esempio, l’equazione  ha infinite soluzioni intere, ma l’unica soluzione a valori interi positivi è .

Forse l’equazione diofantea più famosa è del tipo:

.

Nel caso  essa ha infinite soluzioni intere, le cosiddette “terne pitagoriche“. Invece nel caso  essa non ha soluzioni intere non banali (cioè non esistono tre numeri interi tutti non nulli che soddisfano l’equazione data) e questo risultato che ha impegnato per secoli numerosi matematici è spesso noto come “ultimo teorema di Fermat” sebbene sia stato dimostrato solo nel 1994 da Andrew Wiles.

Notazioni per le espressioni aritmetiche

Il sintetico simbolismo matematico oggi in uso (ad esempio, il simbolo  per l’addizione o  per l’estrazione di radice, l’uso delle parentesi, le lettere per indicare quantità numeriche ecc.) è una conquista relativamente recente: non più di tre o quattro secoli rispetto ai millenni precedenti in cui la matematica è stata prevalentemente descrittiva, basata cioè sull’uso della parola.

Il cammino per giungere all’attuale simbolismo fu lento e graduale: nei primi tempi (fino a Diofanto) si usava esclusivamente il linguaggio naturale, senza ricorrere ad alcun segno. Ad esempio, nell’impostare dei calcoli, gli antichi erano costretti a ricorrere a lunghi discorsi fatti per esteso. Così, l’espressione  veniva enunciata (e scritta) pressappoco in questo modo: tre volte una quantità incognita addizionate a sette unità sono eguali a quattro volte la stessa quantità incognita.

Il primo che cerca di ideare una scrittura matematica più snella è Diofanto. È lui che introduce alcuni simboli per rappresentare gli operatori aritmetici più comuni prendendoli a prestito dall’alfabeto greco; ad esempio sostituisce l’espressione isoi eisin, che in greco significa “sono eguali”, col simbolo  (iota); l’incognita col simbolo ς’; l’incognita al quadrato col simbolo  (dynamis; quadrato); ecc. Con un’applicazione più rigorosa (non sempre presente in Diofanto) si sarebbe ottenuto un sistema di scrittura algebrico altamente perfezionato, se si esclude la rappresentazione dei numeri, per i quali si continuava ad ignorare il sistema dei valori di posizione.

Evoluzione delle notazioni per le equazioni

Solo dalla fine del XVI secolo viene introdotta la scrittura simbolica oggi in uso, in cui si usano segni per rappresentare le operazioni e un linguaggio simbolico non solo per risolvere equazioni ma anche per provare regole generali. Tale innovazione viene introdotta, almeno in linea di principio e nella sua forma più generale, da Vieta (15401603). Il metodo moderno di rappresentare con lettere corsive minuscole dell’alfabeto latino le quantità numeriche fu di poco successivo, ad opera di Thomas Harriot (15601621), e finalmente da Eulero (17071783), che introdusse altri simboli quali  per la base dei logaritmi naturali per l’unità immaginaria,  per la sommatoria.

Quanto detto ha valore puramente indicativo, in quanto il processo che ha portato all’attuale simbolismo matematico fu lungo, contrastato e difficile, e non tutte le innovazioni sono da attribuire ai matematici che abbiamo indicato; ad esempio i segni “più” e “meno” erano già in uso presso gli algebristi tedeschi prima che Vieta li utilizzasse. Le poche “scorie” che rimangono in Vieta, come ad esempio l’indicazione della potenza mediante vocaboli, saranno eliminate nei decenni successivi, e nell’arco di circa centocinquant’anni il simbolismo matematico avrà praticamente raggiunto la sua forma attuale.

Il problema della tomba di Diofanto

A Diofanto si deve un famoso problema, che egli stesso volle venisse scritto sulla propria tomba sotto forma di epitaffio:

(GRC)«Οὑτός τοι Διόφαντον ἔχει τάφος· ἆ μέγα θαῦμα!
καὶ τάφος ἐκ τέχνης μέτρα βίοιο λέγει.
Ἕκτην κουρίζειν βιότου θεὸς ὤπασε μοίρην,
δωδεκάτην δ’ ἐπιθείς μῆλα πόρεν χνοάειν·
τῇ δ’ ἄρ’ ἑβδομάτῃ τὸ γαμήλιον ἥψατο φέγγος,
ἐκ δὲ γάμων πέμπτῳ παῖδ’ ἐπένευσεν ἔτει.
Αἰαῖ, τηλύγετον δειλὸν τέκος, ἥμισυ πατρός
+τοῦδε καὶ ἡ κρυερός+ μέτρον ἑλὼν βιότου.
Πένθος δ’ αὖ πισύρεσσι παρηγορέων ἐνιαυτοῖς
τῇδε πόσου σοφίῃ τέρμ’ ἐπέρησε βίου.»
(IT)«’Questa tomba rinchiude Diofanto e, meraviglia!
dice matematicamente quanto ha vissuto.
Un sesto della sua vita fu l’infanzia,
aggiunse un dodicesimo perché le sue guance si coprissero della peluria dell’adolescenza.
Dopo un altro settimo della sua vita prese moglie,
e dopo cinque anni di matrimonio ebbe un figlio.
L’infelice (figlio) morì improvvisamente
quando raggiunse la metà dell’età che il padre ha vissuto.
Il genitore sopravvissuto fu in lutto per quattro anni
e raggiunse infine il termine della propria vita.»
(Anth. Pal. XIV[2], 126)

La soluzione dell’enigma sta nella seguente equazione:

,

da cui si ricava l’età di Diofanto, .

Ultimo teorema di Fermat

L’ultimo teorema di Fermat (più correttamente definibile come ultima congettura di Fermat, non essendo dimostrata all’epoca) afferma che non esistono soluzioni intere positive all’equazione:

se .

Storia

L’enunciato fu formulato da Pierre de Fermat nel 1637, il quale tuttavia non rese nota la dimostrazione che affermò di aver trovato. Scrisse in proposito, ai margini di una copia dell’Arithmetica di Diofanto di Alessandria sulla quale era solito formulare molte delle sue famose teorie:

“Dispongo di una meravigliosa dimostrazione di questo teorema, che non può essere contenuta nel margine troppo stretto della pagina”.

Nei secoli successivi diversi matematici hanno tentato di fornire una dimostrazione alla congettura di Fermat, tra questi vi sono:

  1. Eulero, che, nel XVIII secolo, formulò una dimostrazione valida solo per ,
  2. Adrien-Marie Legendre, che risolse il caso ,
  3. Sophie Germain, che, lavorando sul teorema, scoprì che esso era probabilmente vero per  uguale a un particolare numero primo , tale che  sia anch’esso primo: i primi di Sophie Germain.

Solo nel 1994, dopo sette anni di dedizione completa al problema e dopo un “falso allarme” nel 1993Andrew Wiles, affascinato dal teorema che fin da bambino sognava di risolvere, riuscì a dare finalmente una dimostrazione. Da allora ci si può riferire all’ultimo teorema di Fermat come al teorema di Fermat-Wiles. Wiles utilizzò tuttavia elementi di matematica e algebra moderna che Fermat non poteva conoscere; pertanto, la dimostrazione che Fermat affermava di avere, ammettendo che fosse corretta, era probabilmente diversa.

La soluzione di Wiles fu pubblicata nel 1995 e premiata il 27 giugno 1997 con il Premio Wolfskehl, consistente in una borsa di 50 000 dollari.

Nel 2016 l’Accademia norvegese di Scienze e Lettere ha assegnato a Sir Andrew J. Wiles il Premio Abel “per la sua splendida dimostrazione dell’Ultimo Teorema di Fermat (…), che apre una nuova era nella teoria dei numeri”.

Il contesto matematico

L’ultimo teorema di Fermat è una generalizzazione dell’equazione diofantea . Già antichi Greci e Babilonesi sapevano che questa equazione ha delle soluzioni intere, come  (infatti ) o . Queste soluzioni, conosciute come terne pitagoriche, sono infinite anche escludendo le soluzioni banali per cui  e  hanno un divisore in comune e quelle, ancor più banali, in cui almeno uno dei numeri sia uguale a zero.

Secondo l’ultimo teorema di Fermat non esistono soluzioni intere positive quando l’esponente  è sostituito da un numero intero maggiore. Mentre il teorema stesso non si presta a nessuna applicazione, cioè non è stato usato per dimostrare altri teoremi, esso è particolarmente noto per la sua correlazione con molti argomenti matematici che apparentemente non hanno nulla a che vedere con la teoria dei numeri. La ricerca di una sua dimostrazione è stata all’origine dello sviluppo di importanti aree della matematica.

Le origini

Il teorema deve essere dimostrato soltanto per  e nel caso in cui  sia un numero primo: se infatti si trovasse una soluzione , si avrebbe immediatamente una soluzione .

Fermat stesso dimostrò in un altro suo lavoro il caso  o, più precisamente, che non esiste una terna  tale che  (ovviamente, se non esiste un  elevato al quadrato, non può nemmeno essercene uno elevato alla quarta potenza). Per la dimostrazione ha fatto uso della tecnica dimostrativa detta “della discesa infinita“. Nel corso degli anni il teorema fu dimostrato per un numero sempre maggiore di esponenti specifici , ma il caso generale rimaneva irrisolto.

Eulero dimostrò il teorema per , mentre Dirichlet e Legendre fecero lo stesso per  nel 1825Gabriel Lamé dimostrò il caso  nel 1839.

Nel 1983 Gerd Faltings dimostrò la congettura di Mordell: per ogni  c’è al massimo un numero finito di interi coprimi  e  con .

La dimostrazione

Utilizzando sofisticati strumenti della geometria algebrica (in particolare la teoria degli schemi), della teoria di Galois (in particolare le rappresentazioni di Galois), della teoria delle curve ellittiche e delle forme modulari (in particolare le proprietà dell’algebra di Hecke), Andrew Wiles, dell’università di Princeton, con l’aiuto del suo primo studente Richard Taylor, diede una dimostrazione dell’ultimo teorema di Fermat, pubblicata nel 1995 sulla rivista Annals of Mathematics.

Nel 1986Ken Ribet aveva dimostrato la congettura epsilon di Gerhard Frey secondo la quale ogni controesempio  all’ultimo teorema di Fermat avrebbe prodotto una curva ellittica, definita come

che a sua volta fornirebbe un controesempio alla congettura di Taniyama-Shimura (una congettura che lega curve ellittiche e forme modulari). Wiles dimostrò un caso speciale di questa congettura, dimostrando che quest’ultima congettura non può avere controesempi di tal tipo e, quindi, dimostrando il teorema di Fermat.

Wiles impiegò sette anni per risolvere quasi tutti i particolari, da solo e in assoluta segretezza (tranne una fase finale di revisione, per la quale si avvalse dell’aiuto di un suo collega di Princeton, Nicholas Katz). Quando, nel corso di tre conferenze tenute all’università di Cambridge tra il 21-23 giugno 1993, Wiles annunciò la dimostrazione, stupì per il gran numero di idee e tecniche usate. Dopo un controllo più attento fu però scoperto un serio errore che sembrava condurre al ritiro definitivo della dimostrazione.

Wiles trascorse circa un anno per rivedere la dimostrazione, avvalendosi anche dell’aiuto di Taylor, e nel settembre 1994 pubblicò la versione finale e corretta suddividendola in due articoli. Il primo, più corposo, contiene gran parte delle idee usate (e si basa su un approccio in parte diverso da quello usato per la prima dimostrazione integrando idee inizialmente scartate), mentre il secondo, scritto con Taylor, contiene un risultato tecnico necessario per concludere la dimostrazione.

Gli strumenti matematici utilizzati da Wiles e Taylor non erano conosciuti ai tempi di Fermat, quindi continua a sussistere il mistero – ed il dubbio – sulla dimostrazione che Fermat avrebbe potuto fornire.

Fermat ha dato realmente una dimostrazione?

La citazione in latino diceva:

(LA)«Cubum autem in duos cubos, aut quadratoquadratum in duos quadratoquadratos et generaliter nullam in infinitum ultra quadratum potestatem in duos eiusdem nominis fas est dividere cuius rei demonstrationem mirabilem sane detexi. Hanc marginis exiguitas non caperet.» (IT)«È impossibile separare un cubo in due cubi, o una potenza quarta in due potenze quarte, o in generale, tutte le potenze maggiori di 2 come somma della stessa potenza. Dispongo di una meravigliosa dimostrazione di questo teorema, che non può essere contenuta nel margine troppo stretto della pagina»
(Pierre de Fermat)

Ci sono seri dubbi riguardo alla rivendicazione di Fermat di aver trovato una dimostrazione veramente importante, che fosse corretta.

La dimostrazione di Wiles, di circa 200 pagine nella prima dimostrazione, ridotte a 130 nella versione definitiva, è considerata unanimemente al di là della comprensione della maggior parte dei matematici di oggi. Spesso le dimostrazioni iniziali della maggior parte dei risultati non sono tipicamente le più dirette ed è quindi possibile che, data la complessità, possa esistere una dimostrazione più sintetica ed elementare. Non è però verosimile che la dimostrazione di Wiles possa essere semplificata in maniera significativa, soprattutto fino a essere esprimibile con gli strumenti matematici posseduti da Fermat.

I metodi utilizzati da Wiles erano difatti sconosciuti quando Fermat scriveva e pare estremamente improbabile che Fermat sia riuscito a derivare tutta la matematica necessaria per dimostrare una soluzione. Andrew Wiles stesso ha affermato “è impossibile; questa è una dimostrazione del XX secolo“.

Dunque, o esiste una dimostrazione più semplice che i matematici finora non hanno trovato, o Fermat semplicemente si sbagliò. Per questo sono particolarmente interessanti diverse dimostrazioni errate, ma in prima analisi plausibili, che erano alla portata di Fermat. La più nota si basa sul presupposto erroneo che valga l’unicità della scomposizione in fattori primi in tutti gli anelli degli elementi integrali dei campi sui numeri algebrici (vedi Dominio a fattorizzazione unica e Fattorizzazione (teoria degli anelli)).

Questa è una spiegazione accettabile per molti esperti della teoria dei numeri considerando anche che molti dei maggiori matematici successivi che hanno lavorato sul problema hanno seguito questo percorso e talvolta hanno anche sinceramente creduto di aver dimostrato il teorema, salvo successivamente dover ammettere di avere fallito.

Il fatto che Fermat non abbia mai reso pubblico, né comunicato a qualche amico o collega, nemmeno un’enunciazione circa l’esistenza di una dimostrabilità (come invece faceva di solito per le sue soluzioni di cui era certo), può essere un forte indizio di un suo successivo ripensamento, dovuto a una tardiva scoperta di un errore nel suo tentativo di dimostrazione. Di fatto l’unica “enunciazione” consistette solo in un suo appunto personale manoscritto ai margini di un libro. Fermat, inoltre, pubblicò successivamente un suo lavoro di dimostrazione per il caso speciale n=4 (ovvero ). Se realmente avesse ancora ritenuto di possedere una dimostrazione completa per il teorema, non avrebbe pubblicato un tale lavoro parziale, indice che la ricerca non era per lui né soddisfacente e neppure conclusa.

Lo stesso dicasi dei matematici che, dopo di lui, dimostrarono il teorema per dei numeri singoli. Si trattò senz’altro di eventi notevoli ma di portata non risolutiva, dato che per definizione i numeri sono infiniti. Ciò che si richiedeva era un procedimento che permettesse la generalizzazione della dimostrazione.

Influenza culturale

Questa voce o sezione sull’argomento matematica è ritenuta da controllare. Motivo: WP:CULTURA, WP:CURIOSITÀ Partecipa alla discussione e/o correggi la voce. Segui i suggerimenti del progetto di riferimento.
  • Nel romanzo La ragazza che giocava con il fuoco, di Stieg Larsson, la protagonista Lisbeth Salander si avvicina al problema e ha un’intuizione sulla sua (semplice, quasi banale) soluzione, mentre attraversa uno spazio all’aperto per nascondersi. La soluzione da lei intravista viene comunque completamente dimenticata dopo essere stata colpita alla testa.
  • Nel romanzo Un uomo di Oriana Fallaci, il protagonista Alekos Panagulis, durante gli anni di isolamento in prigione, arriva alla soluzione del teorema di Fermat ma, non essendogli concesse carta e penna, non riesce a fissare il suo ragionamento, perdendolo per sempre.
  • Nel primo episodio della quinta stagione moderna di Doctor Who, intitolato The Eleventh Houril Dottore afferma di essere stato lui ad aver suggerito il risultato corretto a Fermat.
  • Nel romanzo Il teorema del pappagallo, di Denis Guedj, un vecchio matematico, Grosrouvre, manda una lettera al suo vecchio amico Pierre Ruche affermando di aver dimostrato due congetture: l’ultimo teorema di Fermat e la congettura di Goldbach, anche se voleva tener segrete le dimostrazioni.
  • Nell’episodio Hotel Royale di Star Trek: The Next Generation il capitano Jean-Luc Picard, parlando col comandante William Riker racconta del teorema di Fermat e di come da 800 anni si tenti, invano, di risolverlo. Come nonostante tutta la loro civiltà, la loro tecnologia il loro grado di avanzamento, ancora non siano riusciti a risolvere una così semplice equazione. Si deve considerare che l’episodio è andato in onda nel 1989, pochi anni prima che il teorema venisse risolto. Il teorema viene citato per la seconda volta in Viaggi nella memoria, un episodio di Star Trek – Deep Space Nine, quando viene rivelato che anche Tobin Dax aveva cercato di risolvere questa equazione e che Jadzia Dax si sarebbe ripromessa di cercare sempre soluzioni originali per ogni problema.
  • Nel numero 28 degli albi speciali estivi della serie a fumetti Martin Mystère della casa editrice Bonelli, intitolato “Numeri immaginati” (luglio 2011),[1] si racconta come è nata la storia del teorema e successivamente come si è evoluta. La storia è scritta da Alfredo Castelli e si trova nel piccolo albo accluso all’albo principale.
  • Nel film del 2000 Indiavolato, il problema che Elizabeth Hurley, il diavolo, mostra alla classe un’applicazione dell’ultimo teorema di Fermat, del quale molti studiosi usavano dire che avrebbero venduto l’anima al diavolo per risolverlo.
  • Nel romanzo L’Ultimo Teorema di Arthur C. Clarke e Frederick Pohl, il protagonista Ranjit Subramanian riesce a dimostrare il teorema.
  • Nel film Oxford Murders – Teorema di un delitto il Teorema di Bormat è in realtà l’ultimo Teorema di Fermat.
  • Nel saggio “La Biblioteca Total” 1939 Sur Jorge Luis Borges riferisce che la Biblioteca contiene, essendo totale, la dimostrazione del teorema di Pierre Fermat.

Logica

La logica (dal greco λόγος, logos , ovvero “parola”, “pensiero”, “idea”, “argomento”, “ragione”, da cui poi λογική , logiké ) è lo studio del ragionamento e dell ‘ argomentazione , rivolto in particolare a definire la correttezza dei procedimenti inferenziali del pensiero .

Origine del termine

Il termine λογικός (loghikòs) compare in tutta la storia della filosofia antica precedente e successiva alla dottrina aristotelica (da Eraclito a Zenone di Elea , dai sofisti a Platone ) con il significato generico di “ciò che concerne il λόγος” ( logos ), nel senso molteplice di “ragione”, “discorso”, “legge” ecc. che ha questa parola in greco. [1]

Alla logica aristotelica fu attribuito anche il termine di ” Organon ” («strumento») che si ritrova invece per la prima volta ad Andronico di Rodi (I secolo aC) e ripreso da Alessandro di Afrodisia (II-III secolo dC) [2] che lo riferì agli scritti aristotelici che hanno come tema l’Analitica che è il termine che usa propriamente Aristotele per indicare la risoluzione (“analisi” dal greco ἀνάλυσις – analysis- derivato di ἀναλύω – analyo – che vuol dire “scomporre, risolvere nei suoi elementi “) del ragionamento nei suoi elementi costitutivi.

Dopo Aristotele nella scuola stoica [3] i termini ἡ λογική (τέχνη) ( e loghiké tékne ), τὰ λογικά ( tà loghikà ) assumono il significato tecnico di «teoria del giudizio e della conoscenza» intendendo non solo la gnoseologia ma anche la struttura formale del pensiero. Ed è con questo ultimo valore di organizzazione scientifica delle leggi che assicurano non la verità, ma la correttezza del pensiero, che Aristotele si dedica all’elaborazione della logica , termine da lui ancora non utilizzato. [4]

Disciplina di studio

La logica è tradizionalmente una delle discipline filosofiche, ma riguarda anche numerose attività intellettuali, tecniche e scientifiche, tra cui matematica , semantica e informatica . In ambito matematico la logica è lo studio di inferenze valide all’interno di alcuni linguaggi formali . [5]

Fanno parte degli studi della logica anche quelli per le espressioni verbali dell ‘ analisi logica della proposizione e dell’ analisi logica del periodo .

La logica è stata studiata in molte antiche civiltà tra cui rientrano quelle del subcontinente indiano , la Cina e la Grecia . Fu posta per la prima volta come disciplina filosofica da Aristotele , che le assegnò un ruolo fondamentale in filosofia. Lo studio della logica faceva parte del trivium , che includeva anche grammatica e retorica . All’interno della logica si distinguono diverse metodologie di ragionamento: la deduzione , ritenuta l’unica valida sin dall’età classica , l ‘ induzione , tuttora oggetto di critiche, [6] e l’ abduzione, recentemente rivalutata dal filosofo Charles Sanders Peirce .

Logica classica

La logica classica è la scienza che tratta tutta la validità e le articolazioni di un discorso in termini di nessi deduttivi , relativamente alle proposizioni che lo compongono.

Filosofia antica

In Occidente , i primi sviluppi di un pensiero logico che consentisse di spiegare la natura a partire da argomentazioni coerenti e razionali si sono avuti con i presocratici .

Pitagora riteneva che la matematica fosse la legge fondamentale del pensiero , una legge che gli dava vita e forma secondo la propria struttura; egli inoltre vedeva nel numero il fondamento non solo del pensare, ma anche della realtà. Il legame indissolubile tra la dimensione ontologica e quella gnoseologica resterà una costante della filosofia greca : per Parmenide e la scuola di Elea , la logica formale di non contraddizione, che è la regola a cui sottostà ogni pensiero, è infatti anche legge dell’Essere , [7] che ne risulta vincolato in maniera necessaria: «La dominatrice Necessità lo tiene nelle strettoie del limite che tutto intorno lo cinge; perché bisogna che l’Essere non sia incompiuto ». [8] La tesi parmenidea dell’immutabilità dell’Essere, che «è e non può non essere», fu un primo esempio di logica dei predicati, [7] incentrata cioè su una stringente coerenza tra il soggetto e il predicato ; essa venne fatta propria dal suo discepolo Zenone di Elea , il quale ricorrendo all’uso dei paradossi mise in atto una dimostrazione per assurdo per confutare le obiezioni degli avversari.

Accanto a questo tipo di logica lineare (chiamata anche dialettica ), [9] propria degli eleati, Eraclito sviluppava una dottrina antidialettica , basata sull’interazione e la complementarità di due realtà contrapposte, che anziché escludere i paradossi in quanto ritenuti “illogici”, li accoglieva come un dato di fatto. Eraclito tuttavia evidenziava anche come quelle contraddizioni altro non fossero che variazioni superficiali di un identico sostrato, che celavano la trama segreta dell’unico logos . [10] In che misura la dottrina eraclitea del logossi opponesse al principio di non contraddizione risulta pertanto poco chiaro, ed era oggetto di discussione tra gli stessi antichi greci. [11]

In Platone la logica si configura come dialettica , ossia come la ricostruzione matematica dei collegamenti fra le Idee che stanno a fondamento della realtà. Le Idee, strutturate gerarchicamente, recuperano sia il rigore logico di Parmenide (non contengono contraddizioni), sia il principio eracliteo della diversificazione ( diairesis ), dando luogo a una divisione dicotomica in sotto-classi, dove i singoli aspetti in cui si articola ognuna di esse appaiono in contrasto tra loro su un piano immanente , ma accomunati a un livello superiore e trascendente. Platone anticipa così – in maniera informe – il principio di non contraddizione, poi successivamente elaborato nel famoso libro Γ ( gamma ) della Metafisica di Aristotele. La logica dialettica non è tuttavia per Platone una scienza assoluta , la quale rimane accessibile solo per la via suprema dell’intuizione . Come già nell’eleate Zenone, la dialettica platonica non fa cogliere per sé la verità , ma consente semmai di procedere alla confutazione degli errori e dei paradossi uso del principio di non contraddizione.

Aristotele

Aristotele , riassumendo le diverse posizioni sin qui espresse, diede alla logica un’impostazione sistematica. [12] Per Aristotele essa coincide col metodo deduttivo , l’unico per lui dotato di conseguenzialità necessaria e stringente, come appare evidente nel sillogismo . Il sillogismo è un ragionamento concatenato che, partendo da due premesse di carattere generale, una “maggiore” e una “minore”, giunge ad una conclusione coerente su un piano particolare. Sia le premesse che la conclusione sono proposizioni espresse nella forma soggetto – predicato . Un esempio di sillogismo è il seguente:

  1. Tutti gli uomini sono mortali;
  2. Socrate è uomo;
  3. dunque Socrate è mortale.

Come in Platone , tuttavia, la logica aristotelica rimane uno strumento, che di per sé non dà automaticamente accesso alla verità . Essa può prendere avvio dalle premesse formulate dall ‘ intelletto , che attraverso l’ intuizione perviene alla conoscenza di argomenti universali, da cui la logica trae soltanto delle conclusioni formalmente corrette, scendendo dall’universale al particolare. [13] Ma può discendere anche da forme arbitrarie di pensiero, come l ‘ opinione. Ne consegue che se le premesse sono false, anche il risultato sarà falso. Quella di Aristotele è pertanto una logica formale, lineare, indipendente dai contenuti, che parte da principi primi non dimostrati, dato che proprio da questi deve scaturire la dimostrazione. Come spiega negli Analitici Secondi , solo l’ intuizione intellettuale , situata a un livello sovra-razionale, può dare ai sillogismi un fondamento reale e oggettivo.

«Ora, tra i possessi che riguardano il pensiero e con i quali cogliamo la verità, alcuni risultati sempre veraci, altri invece possono accogliere l’errore; tra questi ultimi sono, ad esempio, per il ragionamento, mentre i possessi sempre veraci sono la scienza e l’intuizione, e non sussiste alcun altro genere di conoscenza superiore alla scienza, all’infuori dell’intuizione. Ciò posto, e dato che i princípi sono più evidenti delle dimostrazioni, e che, d’altro canto, ogni scienza si presenta congiunta alla ragione discorsiva, in tal caso i princípi non saranno oggetto di scienza; e poiché non può sussistere nulla di più verace della scienza, se non l’intuizione, sarà invece l’intuizione ad avere come oggetto i princípi. Tutto ciò che risulta provato, tanto se si considera gli argomenti che precedono, quanto dal fatto che il principio della dimostrazione non è una dimostrazione: di conseguenza, neppure il principio della scienza risulterà una scienza. E allora, se oltre alla scienza non possediamo alcun altro genere di conoscenza verace, l’intuizione dovrà essere il principio della scienza. »
Aristotele, Analitici secondi , 100b 16 [14] )

Negli Analitici primi Aristotele espone invece le leggi che guidano la logica: non dimostrabili neanch’esse, ma intuibili solo in forma immediata, [15] sono il principio di identità , per il quale A = A, e quello di non-contraddizione , per cui A ≠ non-A ( tertium non datur ). Da queste leggi egli concluderà come «impossibile che il medesimo attributo, nel medesimo tempo, appartenga e non appartenga al medesimo oggetto e sotto il medesimo aspetto». [16]

A differenza della deduzione, che ha carattere necessario, l’ induzione muove viceversa dal particolare all’universale, e non può avere quindi alcuna pretesa di consequenzialità logica: partendo infatti da singoli casi particolari, non potrà mai approdare a una legge universale logicamente stringente. [17] La logica aristotelica quindi è solo deduttiva, una “logica induttiva” sarebbe per lui una contraddizione in termini. [18]

Stoicismo

La logica così teorizzata da Aristotele resterà valida almeno fino al XVII secolo . Un ulteriore contributo venne successivamente dallo stoicismo , per il quale la logica non è solo uno strumento al servizio della metafisica , ma si pone come disciplina autonoma rispetto agli altri campi di indagine; [19] essa comprendeva, oltre alla gnoseologia e alla dialettica , anche la retorica . Per “logica” infatti gli stoici intendevano non solo le regole formali del pensiero che si conformano correttamente al Lògos , ma anche quei costrutti del linguaggiocon cui i pensieri vengono espressi. Non a caso Lògos può significare sia ragione che discorso; oggetto della logica quindi sono proprio i lògoi , ossia i ragionamenti espressi in forma di proposizioni ( lektà ). Mentre quella aristotelica è stata una logica dei predicati, quella stoica può essere considerata una logica proposizionale , in quanto incentrata sullo studio della coerenza tra proposizioni (ad esempio piove o non piove ), e dei rapporti tra i significati. Il sillogismo aristotelico fu ampliato, venendo inteso in un senso non solo deduttivo , ma anche ipotetico. In maniera simile alla gnoseologia aristotelica, per gli stoici il criterio supremo della verità è l’evidenza, che le assegna quel carattere di scienza necessario per poter distinguere correttamente il vero dal falso. [20]

Dal Medioevo all’età moderna

Il contenuto dei significati e la loro origine sono stati approfonditi dalla logica medievale , specie dalla scolastica che distinse tra logica minor e logica maior . Nel Rinascimento, con il Novum Organum , Francesco Bacone cercò di costruire una nuova metodologia basata sull’induzione impostando la logica come strumento di indagine scientifica. Riprendendo questi temi René Descartes cercò di stabilire se il rigore tipico di un discorso matematico poteva essere alla base di qualsiasi sapere, compreso quello filosofico.

Sempre sul calcolo matematico Thomas Hobbes pensò la logica come una combinazione di segni e regole. Gottfried Leibniz ei suoi seguaci cercarono poi di unificare il complesso delle strutture logico / linguistiche in un linguaggio scientifico universale, ossia la “logica simbolica e combinatoria”.

Ancora nel Settecento il contributo delle correnti filosofiche non portò a sostanziali innovazioni nello sviluppo della logica moderna. Immanuel Kant nella sua Critica della ragion pura definisce la logica trascendentale come una parte della logica generale che, una differenza di quella puramente formale , indaga le condizioni di validità della conoscenza umana in riferimento ai rapporti empirici. [21] Il problema di Kant era ricercare una giustificazione al modo in cui la scienza moderna poteva ampliare le nostre conoscenze sul mondo.

Kant distinse in proposito le proposizioni logiche, altrimenti dette analitiche , da quelle empiriche. Le prime non possono essere contraddette, pur essendo tautologiche in quanto esprimono un concetto già implicito necessariamente nelle premesse, mentre quelle empiriche sono delle constatazioni di fatto in cui il predicato non è compreso nel soggetto: queste ultime sono pertanto sintetiche , in quanto collegano, o uniscono, un contenuto ad un altro diverso. Nessuna delle due tipologie risultava però in grado di ampliare il nostro sapere sul mondo, dato che le proposizioni analitiche non aggiungono alcuna conoscenzaalle premesse, mentre quelle empiriche, riprodurre su un dato contingente, erano prive di universalità. Kant ritenne allora di individuare un terzo tipo di proposizione, che pur essendo sintetica non derivasse dall’esperienza: le proposizioni sintetiche a priori , [22] su cui giustificare la pretesa della scienza di essere valida. In quest’ultimo tipo faceva rientrare anche le proposizioni della matematica .

Gottlob Frege tuttavia dimostrerà in seguito che l’aritmetica è da ricondurre alla sola logica, in quanto costituita da proposizioni puramente analitiche. Altri studiosi del Circolo di Vienna hanno contestato l’esistenza dei giudizi sintetici a priori . [22]

Kant si era comunque mantenuto all’interno della logica formale di non contraddizione, che sarebbe stata di lì a poco rinnegata da Hegel , in favore di una nuova logica che fosse insieme forma e contenuto, e in cui, in maniera simile ad Eraclito , ogni realtà coincidesse dialetticamente col suo opposto. Nel tentativo di eliminazione ogni riferimento alla trascendenza , Hegel rigettò quelle filosofie che ponevano un fondamento della deduzione logica un atto intuitivo di natura sovra-razionale, e trasformò il metodo deduttivo in un procedimento a spirale che giungesse infine a giustificarsi da solo. Veniva così abbandonata la logica classicaaristotelica: mentre quest’ultima procedeva in maniera lineare, da A verso B, la dialettica hegeliana procede in maniera circolare: da B fa scaturire C (sintesi), che è a sua volta la validazione di A.

Logica contemporanea

Nella seconda metà del XIX secolo la logica tornerà a studiare gli aspetti formali del linguaggio, ovvero la logica formale , ed essere trattata con metodi naturalistici da Christoph von Sigwart e Wilhelm Wundt , portando conseguentemente allo sviluppo della matematica logica .

Con la fisica moderna , avviata dalla meccanica quantistica , si è però passati da una logica aristotelica o del terzo escluso , ad una eraclitea ( antidialettica ) che invece include sostituendo il principio di non contraddizione con quello di complementare contraddittorietà ; un quanto risulta infatti essere e non essere contemporaneamente due rappresentazioni opposte di una stessa realtà: particella ed onda . [23] Concetto che rappresenterebbe il vero paradosso del diveniredella realtà enunciato in generale da Eraclito quando diceva «nello stesso fiume scendiamo e non scendiamo; siamo e non siamo ».

Un ulteriore contributo nell’ambito della logica formale matematica è venuto infine da Kurt Gödel , in relazione alle ricerche volte a realizzare il programma di Hilbert , che chiedeva di trovare un linguaggio matematico che poteva provare da solo la propria consistenza o coerenza . Con due suoi famosi teoremi, Gödel dimostrò che se un sistema formaleè logicamente coerente, la sua non contraddittorietà non può essere dimostrata stando all’interno del sistema logico stesso. Il senso della scoperta di Gödel è ancora oggi oggetto di discussione: da un lato si ritiene che il suo teorema abbia definitivamente distrutto la possibilità di accedere a verità matematiche di cui avere assoluta certezza; dall’altro che egli abbia invece risolto positivamente il proposito di Hilbert, anche se per una via opposta a quella da costui immaginata, avendo paradossalmente dimostrato che la completezza di un sistema è racconto proprio perché non può essere dimostrata: [24]mentre se, viceversa, un sistema può dimostrare la propria coerenza, allora non è coerente. Lo stesso Gödel era convinto di non avere affatto dissolto la consistenza dei sistemi logici, da lui sempre considerati platonicamente come funzioni reali dotati di pieno valore ontologico , e che anzi il suo stesso teorema di incompletezza aveva una valenza di oggettività e rigore logico. Oltretutto, egli spiegava, la presenza di un enunciato che affermi di essere indimostrabile all’interno di un sistema formale, significa appunto che esso è vero, dato che non può essere effettivamente dimostrato. [25]

Gödel interpretò i suoi teoremi come una conferma del platonismo , corrente filosofica che affermava l’esistenza di formule vere ma non dimostrabili, e cioè l’irriducibilità della nozione di verità a quella di dimostrabilità . In accordo con questa filosofia, la sua convinzione era che la verità , essendo qualcosa di oggettivo, non può essere posta a conclusione di alcuna sequenza dimostrativa, ma solo all’origine. Similmente a Parmenide , egli concepiva la logica “formale” come unita indissolubilmente a un contenuto “sostanziale”:

«Malgrado la loro distanza dall’esperienza sensoriale, però, noi abbiamo qualcosa di analogo a una percezione anche per gli oggetti insiemistici, come si vede dal fatto che gli assiomi ci si impongono come veri. Non vedo motivi per avere meno fiducia in questa sorta di percezione, cioè nell’intuizione matematica, che nella percezione sensoriale, che ci spinge a costruire teorie fisiche e ad attenderci che le percezioni sensoriali future vi si adegueranno e, inoltre, a credere che un problema oggi non decidibile abbia senso e possa essere deciso in futuro.

Se e solo se

In matematicafilosofialogica e nei campi tecnici che ne dipendono, si usa spesso l’espressione se e solo se, o l’abbreviazione sse, per esprimere l’equivalenza logica di due enunciati, esplicitando che i due enunciati hanno lo stesso valore di verità: se è vero il secondo allora è vero anche il primo, e viceversa.

Nella scrittura, le seguenti espressioni sono equivalenti

Nelle formulazioni logiche i simboli logici sono usati al posto di queste frasi; vedi la discussione sulle notazioni.

Il connettivo logico se e solo se compare nella logica proposizionale con la seguente tavola di verità

A B sse B
F F V
F V F
V F F
V V V

In logica matematica l’espressione “a ↔ b” è equivalente all’espressione ““. Questa proprietà viene utilizzata in tutti i campi della matematica quando è necessario dimostrare una proprietà del tipo “a ⇔ b”; in questi casi, quindi, si dimostra in un primo momento che  e successivamente che .

Una definizione informale del connettivo logico sse risulta essere: “ponte tra sinonimi”. Esiste infatti un isomorfismo tra una parola e un suo sinonimo.

Uso

Notazioni

I simboli logici che corrispondono al se e solo se, sono “↔”, “⇔” e “≡”, e a volte “sse” (in inglese “iff”, “if and only if”).


Queste notazioni sono tutte equivalenti. Tuttavia, alcuni testi di logica matematica (in particolare quelli di logica del primo ordine, o piuttosto quelli di logica proposizionale) fanno una distinzione tra le notazioni, in particolare tra le prime: ↔, è usata come simbolo nelle formulazioni logiche, mentre ⇔ è usata nella discussione inerente queste formule (per esempio in metalogica).

Differenza tra “sse” e “se”

Per semplicità, la differenza tra se e sse può essere illustrata con le due seguenti proposizioni:

  1. Caio mangerà il dolce se il dolce è alla crema. (equivalentemente: se il dolce è alla crema, allora Caio lo mangerà)
  2. Caio mangerà il dolce se e solo se (sse) il dolce è alla crema.

La proposizione (1) dice solamente che Caio mangerà il dolce alla crema. Tuttavia non preclude la possibilità che Caio abbia l’occasione di mangiare un dolce diverso. Forse lo farà, forse non lo farà. La frase non ci dice nulla a proposito. Tutto ciò che sappiamo è che Caio mangerà sicuramente un dolce se questo è alla crema.

La frase (2) dice che Caio mangerà solo dolci alla crema e solo quelli. Caio non mangerà altri tipi di dolce.

Un’ulteriore differenza è che “se” è usato nelle definizioni (ad eccezione nella logica formale); vedere oltre.

Nel primo caso si dice che la proposizione (“Se il dolce è alla crema”) implica (“Caio lo mangerà”).

Nel secondo caso, si dice che la coimplica.

Considerazioni avanzate

Interpretazione filosofica

Una frase composta da due frasi collegate tramite “sse” è chiamata una bicondizionalesse collega le due frasi per formare una nuova frase. Non deve essere confuso con l’equivalenza logica che è una descrizione della relazione tra due frasi. La bicondizionale “A sse B” usa la frase A e la frase B, descrivendo una relazione tra lo stato delle cose che A e B descrivono. Al contrario, “A è logicamente equivalente a B” lega le due frasi: descrive una relazione tra quelle due frasi, e non tra gli argomenti di cui parlano.

La distinzione è molto confusa, e ha condotto molti filosofi fuori strada. Certamente se A è logicamente equivalente a B allora “A sse B” è vera. Ma il contrario non funziona. Si consideri la frase:

Caio mangerà il dolce se e solo se è alla crema.

Chiaramente non c’è equivalenza logica tra le due parti di questa bicondizionale.

Definizioni

In filosofia e in logica, “iff” è usato nelle definizioni. In matematica e altrove, tuttavia, la parola “se” è normalmente usata nelle definizioni, al posto di “sse” (alcuni autori tuttavia indicano esplicitamente che “se” all’interno di una definizione significa “sse”)

Esempi

Sono riportati alcuni esempi di frasi vere che usano “sse” (il primo è un esempio di definizione, quindi normalmente sarebbe scritto usando “se”):

  • Una persona è uno scapolo sse quella persona è non sposata ed è un uomo sposabile.
  • “La neve è bianca” (in italiano) è vera sse “Snow is white” (in inglese) è vera.
  • Per ogni pq e r: (p & q) & r sse p & (q & r). (Poiché questa frase è scritta usando variabili e “&”, la frase dovrebbe essere scritta usando “↔”, o uno degli altri simboli usati nella scrittura della bicondizionale, al posto di “sse”).

°°°°°

 

 
Lascia un commento

Pubblicato da su 2 novembre 2020 in MATEMATICA

 

Tag: , , ,

Lascia un commento